I migranti irregolari dimenticati dalla sanità pubblica

Elaborato di Federico Lorenzo Baccini

Hanno diritto alle cure, ma le liste d’attesa infinite li costringono spesso a tornare nel proprio Paese. Solo gli ambulatori popolari li assistono gratuitamente negli stadi iniziali della malattia, facendo risparmiare al Sistema sanitario nazionale centinaia di euro per ogni paziente, ogni anno.

Migranti in fila per ricevere assistenza al poliambulatorio dell’Opera San Francesco per i Poveri di Milano

Ha un addome enorme, ma su un corpo esile. Cammina a fatica, a malapena riesce a respirare. Ibrahim ha 58 anni e presenta una delle complicanze più frequenti della cirrosi epatica: litri di liquido accumulati che impediscono il corretto funzionamento di reni, fegato e diaframma. Si chiama ascite e gli occupa quasi tutta la cavità addominale. Ibrahim è un migrante irregolare egiziano, una delle 50 mila persone in Italia che non ha una casa. Fino a marzo ha trovato accoglienza in un dormitorio pubblico milanese, ma con le nuove disposizioni anti-Covid è finito di nuovo a vivere in strada. E l’alcool è diventato la sua forma di consolazione. Dopo mesi di abuso, la sua cirrosi da epatite C si è aggravata. Ibrahim non sa di avere diritto a essere curato dal Sistema sanitario nazionale. È qui che inizia il lavoro degli ambulatori popolari, organizzazioni no-profit che offrono prestazioni mediche gratuite ai migranti senza permesso di soggiorno o con una richiesta di asilo respinta.

Tre cause di una stessa malattia

Il dottor Giulio Sacchi, epatologo volontario
al poliambulatorio dell’Opera San Francesco di Milano

«La cirrosi è una malattia cronica del fegato. Semplificando, è la morte delle cellule epatiche e il formarsi di tralci fibrotici, come se fossero delle cicatrici», spiega il dottor Giulio Sacchi, epatologo volontario al poliambulatorio dell’Opera San Francesco per i Poveri di Milano. «Il fegato è un’intelaiatura fibrotica, milioni di cellule epatiche tenute insieme dal tessuto connettivo». Questo tessuto può collassare per un’aggressione virale o per un accumulo eccessivo di grasso, la steatosi. «A furia di collassi, il tessuto cicatriziale si accumula e le funzioni metaboliche del fegato vengono compromesse, passando dallo stadio dell’epatite cronica a quello della vera e propria cirrosi. Una complicanza molto grave è l’encefalopatia, quando alcune sostanze tossiche provenienti dall’intestino non vengono metabolizzate dal fegato compromesso e raggiungono l’encefalo. Dal rallentamento delle funzioni cerebrali si può arrivare anche al coma». Secondo il Libro bianco della gastroenterologia italiana sono 21 mila le morti ogni anno per cirrosi epatica, con una percentuale di mortalità tra le più elevate dell’Europa occidentale. Le cause dei collassi del tessuto epatico possono essere diverse, ma di solito sono riconducibili a tre principali: epatite alcolica, epatite B o epatite C. «Per quella causata dall’alcolismo parliamo di dosi consistenti e durature nel tempo. Almeno quattro birre da 33 centilitri ogni giorno per mesi. Non ci sono cure specifiche, bisogna lavorare sulla prevenzione e sul rapporto empatico col paziente per fargli smettere di bere», continua il dottor Sacchi. «Per l’epatite B dal 1992 in Italia c’è invece la vaccinazione obbligatoria. Esistono anche delle terapie che tengono sotto controllo il virus, ma senza eliminarlo: è come un armistizio. Ma se il paziente per qualsiasi motivo abbassa le difese immunitarie, il virus diventa automaticamente più aggressivo». E poi l’epatite C: «I farmaci che abbiamo a disposizione eradicano il virus con un tasso di guarigione del 99 per cento. Il problema di questi farmaci è il costo, circa 10 mila euro per tre mesi di terapia». Tutte le persone che godono dell’assistenza sanitaria – cioè chi ha la cittadinanza italiana o un permesso di soggiorno – appena arrivano allo stadio iniziale della cirrosi possono contare sulle cure gratuite garantite dallo Stato. Cosa ne è invece di Ibrahim e degli altri migranti irregolari che come lui non possono avere la tessera sanitaria?

Chi cura un migrante irregolare

Come emerge da una recente inchiesta pubblicata su L’Espresso, più di 600 mila migranti in Italia non hanno forme di protezione internazionale e questo ha un pesante impatto sulla sanità pubblica. Secondo la legge Turco-Napolitano del 1998 anche gli irregolari hanno diritto alle cure gratuite, «ma solo in caso di condizioni di urgente, essenziale e indifferibile necessità», specifica Sara Fadelli, coordinatrice delle attività sanitarie del poliambulatorio dell’Opera San Francesco. «Noi possiamo intervenire erogando una tessera Stp (Stranieri temporaneamente presenti, ndr), che permette di accedere alle cure in ospedale. Ma il nostro lavoro inizia molto prima, soprattutto a livello di prevenzione». Sono 250 i medici che prestano servizio gratuito nell’ambulatorio popolare di via Antonello da Messina. Uno di loro è proprio l’epatologo Giulio Sacchi, che da cinque anni vede passare dallo studio i casi più disparati: «Tra i nostri pazienti l’alcolismo rimane comunque la prima causa di epatite cronica, che può portare alla cirrosi nel venti per cento dei casi».

Il problema di una malattia come la cirrosi è che spesso i sintomi non si manifestano fino a quando i danni al fegato non sono già a uno stadio avanzato. «Molti si presentano dicendo di avere male al fegato. Ma quando ti trovi con un paziente che è in fase di epatite cronica avanzata, lo riconosci subito sia dalle analisi biochimiche, che dall’ecografia. Si vede un fegato di trama irregolare, tutto bozzoluto, anziché liscio. Non ci sono molti dubbi». La maggioranza però arriva da lui già consapevole del problema, perché gli è stato diagnosticato nel proprio Paese di origine. «Per esempio, a livello epidemiologico gli egiziani hanno un’alta incidenza di epatite C, mentre i georgiani di epatite B. I latino-americani sono invece più esposti a epatiti croniche per abuso alcolico», continua l’epatologo. «Due pazienti su tre a cui diamo assistenza sono cirrotici in fase iniziale. Se l’epatite è virale esistono delle terapie, ma sono ospedaliere e troppo costose. Se invece l’origine è legata all’alcolismo, bisogna riuscire ad agganciarli subito, dare loro appuntamenti ogni settimana e sperare solo che poi vogliano farsi seguire». Solo nel 2019 sono stati curati nell’ambulatorio dell’Opera San Francesco 1209 pazienti che si dichiaravano alcolisti. Di questi, a 123 sono stati diagnosticati disturbi epatici legati all’abuso di alcool (di cui 23 cirrosi): uno su dieci è quindi un potenziale cirrotico. Vanno poi aggiunte altre 23 cirrosi per infezione virale, che porta a 146 il dato dei migranti irregolari a cui è stata data assistenza per malattie epatiche. «Alcool e virus possono anche coesistere. Anzi, si amplificano a vicenda», chiarisce il dottor Sacchi. È il caso di Ibrahim, che ha una cirrosi scompensata, cioè una grave manifestazione clinica: l’ascite, l’eccessivo accumulo di liquido nell’addome, appunto. «Per lui la terapia è mirata sulle conseguenze della malattia, qui io non posso fare manovre invasive. Per questo gli ho aumentato le dosi di diuretico per espellere una parte del liquido ascitico. Ma ormai è a uno stadio troppo avanzato, deve andare in ospedale. Sta rischiando tutte le complicanze della cirrosi, dalla rottura delle varici esofagee all’encefalopatia». Il problema è che Ibrahim in ospedale non ci vuole assolutamente andare.

Esclusi e autoesclusi

«Le motivazioni sono tutte sue, probabilmente culturali o di qualche blocco mentale». Il dottor Sacchi scuote la testa sconsolato mentre pensa al suo ultimo paziente. «Non è il primo e sicuramente non sarà l’ultimo. Il peggio è quando finalmente si convincono, ma ormai la cirrosi è a uno stadio così avanzato che non si può fare più nulla per salvarli». Ibrahim fa parte di quella categoria che Fadelli dell’Opera San Francesco definisce degli «autoesclusi, quei migranti che non ammettono il problema e perciò non vanno a farsi curare». Prendere coscienza della propria malattia è uno scoglio per qualsiasi essere umano, perché implica un cambiamento più o meno radicale nella propria vita. Ma per un migrante irregolare può diventare ancora più complesso, perché si somma a una condizione di vita già precaria. «C’è chi proprio non riconosce di essere malato, anche per paura delle conseguenze a livello psicologico. Poi ci sono gli analfabeti del sistema sanitario, che non sanno che possono usufruire di alcuni diritti». E infine ci sono quelli che non hanno una rete familiare o assistenziale di supporto: «Se un medico li indirizza in una struttura pubblica, non sanno come arrivarci. quindi semplicemente non ci vanno. Purtroppo succede spesso».

Sara Fadelli, coordinatrice delle attività sanitarie del poliambulatorio dell’Opera San Francesco di Milano

La questione dell’autoesclusione si intreccia con un altro problema più profondo del Sistema sanitario italiano: quello dell’esclusione nei fatti. «Come tutti gli ambulatori popolari, anche noi dell’Opera San Francesco possiamo arrivare fino a un certo punto con le cure», continua Fadelli. «Ci siamo resi conto però che spesso andiamo a sbattere contro lo scoglio delle strutture pubbliche. C’è una grande difficoltà a prendere in carico anche gli Stp: le liste d’attesa sono infinite, possono passare anche mesi e mesi prima del ricovero». Questo è ancora più evidente per i migranti che hanno sviluppato una cirrosi per infezione virale, dopo aver contratto l’epatite C: «I pazienti che possono permetterselo fanno prima a tornare nel proprio Paese di origine a farsi curare. Magari il loro sistema sanitario gli passa anche il trattamento perché è una malattia endemica, come in Egitto, o comunque costa molto poco, come in India. Non devono aspettare i tempi delle nostre liste e dopo tre mesi di terapia possono provare a ritornare qui». Ancora una volta da migranti irregolari, con un nuovo viaggio clandestino all’orizzonte. Insomma, in Italia se sei un migrante irregolare sei quasi del tutto escluso dalla sanità pubblica. Non per principio, ma nella pratica, a causa delle molte difficoltà che vengono poste sulla tua strada. «Per esempio, quasi nessuno di loro sa di avere diritto a richiedere la tessera Stp quando si presenta al pronto soccorso. È un lavoro che dobbiamo fare noi associazioni quando arrivano negli ambulatori popolari».

Eppure, queste organizzazioni no-profit non solo danno assistenza gratuita ai migranti, ma sollevano tutto il Sistema sanitario nazionale da un carico economico non indifferente. Il caso delle cure nelle fasi iniziali della cirrosi epatica è un’ottima cartina tornasole. Solo l’Opera San Francesco ha calcolato che nel 2019 ha fatto risparmiare allo Stato 190 euro per ogni paziente cirrotico o potenziale, 230 se affetto da epatite virale (a cui si devono aggiungere altri 420 euro di terapia di supporto, che però sarebbero stati solo a carico del malato). Considerati i 146 migranti assistiti, il risparmio totale è stato pari ad almeno 29 mila euro per il Sistema sanitario, più altri 61 mila euro circa per i pazienti. «È comunque un calcolo sottostimato, perché quando si ha a che fare con soggetti vulnerabili si cerca di aiutarli prima di tutto nei loro bisogni di primaria importanza, ma all’interno del loro complesso quadro clinico», conclude Fadelli.

Ibrahim – e tanti migranti irregolari come lui – non può contare solo sul supporto degli ambulatori popolari. Le complicanze della sua cirrosi epatica devono essere trattate in una struttura ospedaliera, prima che la situazione diventi irrecuperabile. Ibrahim ora sa di averne diritto, deve solo riuscire a superare la sua diffidenza. Non può però permettersi di rischiare mesi di attesa prima di essere operato o di prendere un volo per farsi curare in Egitto. Dopo aver perso un tetto sopra la testa a causa della pandemia Covid-19, la sua salute non può essere compromessa anche da chi lo dovrebbe assistere.

Federico Lorenzo Baccini