Cirrosi epatica e la paura di un trapianto. Emozioni e voglia di vivere di una paziente.

Elaborato di Andrea Galliano

«La mia mente ha cancellato molte cose». Francesca (nome di fantasia per tutelare la privacy), non ricorda i giorni successivi al trapianto del fegato, avvenuto ad agosto del 2014 a Milano. Da psicoterapeuta sostiene sia un caso di rimozione.
Tutto il resto, invece, le è rimasto ben impresso. L’anno prima, a luglio, camminando per strada inciampa, perde l’equilibrio, cade e si ferisce al viso. Va al pronto soccorso, le fanno gli esami del sangue e i valori relativi al fegato risultano alterati. Non dà importanza alla cosa e continua a vivere come se nulla fosse. Fino a che, un giorno, un collega psicoterapeuta la vede gialla. Sul viso e all’interno degli occhi. Giorno dopo giorno sempre più gialla.

Si convince e prenota una visita dall’epatologo all’Ospedale Sacco di Milano. «La metterei in lista per un trapianto», le comunica lo specialista in seguito alla diagnosi di cirrosi epatica. «No, assurdo», la reazione della paziente che si rifiuta di accettare le parole del medico. Non abusa di alcol (come il 60-70% di chi soffre di questa patologia), non ha l’epatite b o c né problemi di metabolismo o alle vie biliari. “Criptogenetica”, in questo caso, è l’eziologia, la causa del suo malessere come è prassi dire nel linguaggio medico. Con “cripto” ci si riferisce a qualcosa di nascosto, non conosciuto.

Francesca, però, ha una spiegazione a quanto le è accaduto: «Ero molto arrabbiata in quel periodo e questa emozione colpisce il fegato». Per lei è una questione psicosomatica. Non ha dubbi, anche perché non ci sono mai stati casi in famiglia. E sottolinea che l’organo in questione, dal punto di vista simbolico rappresenta la forza, il coraggio e l’amore. Non a caso racconta che: «Molti anni fa, quando ero ventenne, in Marocco mi avevano detto che se un ragazzo è innamorato dice che vuole dare il suo fegato alla ragazza».

La psicoterapeuta ora 68enne aveva molta paura dell’intervento. Paura di non superarlo e del dolore. Ma poco dopo l’epatologo aggiunge: «Senza il trapianto le restano due mesi di vita». Per Francesca è uno shock che spazza via ogni resistenza. L’operazione dura 12 ore. I medici pensavano si fosse chiuso un canale con il rene e l’hanno riaperta, ma invece funzionava benissimo. Succede. Poi, una volta riaperti gli occhi, decide che deve migliorare di un centimetro alla volta. E come tragitto sceglie il percorso tra il letto e il bagno.

Nella stanza sono in tre, si parlano e si fanno compagnia. Una signora le ha raccontato i suoi problemi e lei l’ha ascoltata. Una sorta di volontariato, dato il suo mestiere. Nei momenti più difficili utilizza spesso il pensiero positivo profondo. «Francesca fatti forte, ce la farai», si ripeteva di frequente. Oltre a prendere gli antidolorifici. Lei di solito non prende medicine, preferisce i rimedi omeopatici. Ma questa volta non aveva altra scelta. E dopo tre settimane è di nuovo a casa. Le due figlie, Marta e Valentina, e suo fratello la assistono. Fino a che dopo 15 giorni, un collega, la vede in forma e le dice di tornare al lavoro. Per lei stare a riposo vuol dire lasciarsi andare, non accendere l’energia.

Oggi tutto procede senza problemi. Ogni sei mesi fa una visita di controllo. Eco-doppler. Ed è sempre andato tutto liscio. Evita cibi grassi (carne di maiale, creme) e salati. Non sa chi le abbia donato il fegato, ma «ogni tanto con questo organo parlo, lo ringrazio e gli dico che spero che stia bene per tanti anni». L’epatologo le aveva detto che se avessero trovato il fegato giusto avrebbe vissuto per altri 20 anni. Per il momento ne sono passati sei e l’intervento è un non-ricordo lontano.