Cirrosi ed encefalopatia tra scarsa prevenzione iniquità e costi sanitari

Elaborato di Chiara Colangelo

L’HCV «virus silente»: i farmaci innovativi e le «stime prudenziali» degli infetti

Dietro le malattie del fegato c’è una Italia spesso di “sommersi” e di “salvati”. E un quadro complesso, perché se l’infezione da virus “epàtotropi”, nello specifico l’Hepatitis C Virus (HCV) resta ancora tra le prime cause di insufficienza epatica, «lo scenario sta completamente cambiando», afferma il professore Giovanni Addolorato, dirigente medico U.O.C di medicina interna, gastroenterologia e malattie del fegato al Policlinico universitario “Agostino Gemelli” di Roma.

La scoperta di farmaci innovativi per la cura dell’HCV, in Italia il primo è stato commercializzato nel 2014, per la prima volta ha messo a disposizione una terapia con percentuali di remissione della malattia fino al 90-95 per cento. Questi farmaci, chiamati Daa (Direct acting-antiviral o anti-virali ad azione diretta), agiscono contro l’HCV: «essi hanno una base nucleotidica, che interagendo col metabolismo intracellulare degli acidi nucleici, uccide il virus». Lo standard di cura è notevolmente migliorato. Prima dei farmaci “innovativi”, infatti, i malati di HCV venivano trattati con interferone peghilato e ribavirina che per lo più rallentavano il virus senza condurre a una reale guarigione. Non solo, perché nel 10-20 per cento dei pazienti tali farmaci comportavano gravi complicazioni che costringevano a sospenderne immediatamente l’assunzione.

Un progresso medico importante che ha permesso all’Italia, assieme a soli otto paesi in tutto il mondo, di raggiungere gli obiettivi fissati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) nell’ambito della strategia di eradicazione dell’epatite C a livello mondiale entro il 2030. Se è vero che il nostro paese ha combattuto in questi anni il virus dell’HCV, si rendono però necessari ulteriori interventi sul piano della prevenzione e dell’accesso alle cure soprattutto per attutire l’elevato impatto sociale ed economico delle patologie ad esso correlate, non più curabili con questa classe di farmaci, come la cirrosi e la conseguente encefalopatia porto-sistemica.

Uno dei fattori più insidiosi dell’HCV è racchiuso nell’assenza di sintomi: nella stragrande maggioranza dei casi infatti questa malattia è asintomatica fino allo stadio più avanzato, così circa il 70 per cento delle persone infette non sa di esserlo. Ad alimentare questo vuoto ci sono la scarsità di studi epidemiologici o screening e le disparità nella raccolta dei dati e le difficoltà di una loro condivisione all’interno dei sistemi informativi sanitari attuali.

Per questo capire con esattezza la prevalenza della malattia resta un rebus. Vengono fatte dunque delle stime. L’Istituto Superiore di Sanità (Iss) per esempio, grazie al Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute, calcola che ci siano oltre un milione di casi di Hcv cronica. Una fetta consistente che allunga le fila di chi sviluppa fibrosi al fegato e quindi la cirrosi. Secondo l’Iss circa il 15-45 per cento delle persone infette guarisce spontaneamente entro sei mesi, si parla in questo caso di Hcv acuta priva di sintomi, mentre l’85 per cento va incontro alla cronicizzazione. Il 20-30 per cento sviluppa nell’arco di 10-20 anni la cirrosi, nell’1-4 per cento delle ipotesi invece un successivo epatocarcinoma. E sempre l’Iss registra circa 100 nuovi casi ogni anno con «forme cliniche evidenti e sintomatiche».

Tra gli italiani affetti da HCV solo una parte viene curata con i farmaci innovativi. Al 25 maggio 2020, in base ai dati diffusi dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) sul monitoraggio dei trattamenti dell’epatite C cronica, i malati cosiddetti «eleggibili» – quelli più gravi – sono oltre 208 mila. Dal 2017, quando la legge di Bilancio ha introdotto il fondo per i farmaci “innovativi” – i trattamenti sono diventati gratuiti a carico del Servizio Sanitario Nazionale – il numero dei malati avviati alle cure contro l’HCV è aumentato in modo quasi costante.

Ma, come denuncia Motore Sanità, think tank di esperti che gestisce progetti, eventi, iniziative sui temi portanti del sistema sanitario italiano, ci sono tra le 200 mila e le 300 mila persone con diagnosi nota che devono ricevere ancora una cura, mentre preoccupa quella fetta di popolazione che ha l’HCV, ma non sa di averlo contratto. Tra questi «sommersi» che, secondo un’indagine realizzata nel 2018 dall’associazione di pazienti EpaC Onlus con la collaborazione dell’Eetha del Centro studi economici e internazionali (Ceis) dell’Università “Tor Vergata” di Roma, si aggirano tra i 70 e 130 mila, ci sono persone che non risultano dai registri sulle esenzioni per patologia delle Regioni: parliamo di 29-46 mila tossicodipendenti e 35-57 mila over 65.


La storia di Marco, dalla scoperta dell’HCV al trapianto di fegato

Tra i “salvati” c’è Marco. «Venticinque anni fa ho scoperto di avere contratto il virus dell’epatite C», racconta. A poco a poco, la malattia gli avrebbe cambiato la vita.

«Quando mi hanno diagnosticato l’epatite C i medici mi dissero che ero in uno stadio “compensato”: in altri termini era iniziata già una progressiva, ma lenta distruzione dell’organo che continuava però, anche abbastanza bene, a fare il proprio lavoro». Quando Marco scopre di essere infetto è il 1995, viene a saperlo per caso: prima di sottoporsi a un’operazione dal dentista – «dovevo togliermi un dente» – esegue alcuni test per i dosaggi anticorpali. «Alcuni valori nel sangue erano alti, le transaminasi in particolar modo. Dopo ulteriori accertamenti sulle diverse cariche virali ho scoperto di avere contratto il virus dell’HCV». Fino ad allora Marco aveva vissuto una vita normale. Poi è arrivata la cirrosi e i primi segnali dell’encefalopatia epatica, fino al giorno in cui non gli è stato prospettato il trapianto di fegato e, nel 2014, la possibilità di sottoporsi alla nuova cura contro l’epatite C, grazie alla scoperta di farmaci innovativi. Marco ha 65 anni. Oggi è completamente guarito e assieme ad altre persone – alcune già trapiantate altre in attesa di una donazione – guida le attività dell’associazione “Vite Odv” (Volontariato Italiano Trapiantati Epatici, Rene e Pancreas) nata nel 1996 a Pisa, con lo scopo di dare supporto ai pazienti e portare avanti, anche nelle scuole, progetti educativi su un corretto stile di vita. «Una sera ero al lavoro. Ero in chiusura. – esordisce Marco –. Prima di lasciare il mio ufficio, tento di mettere a posto la mia scrivania. Mi chino quindi per aprire un cassetto e mettere dentro del materiale. Lo richiudo. Dopo pochi minuti, riapro il cassetto e rimetto lo stesso materiale sulla scrivania. Fino a quando un collega che sedeva di fronte a me mi dice: “Marco ma cosa stai facendo?”. Gli rispondo: “sì perché?”». «Non mi ero reso conto di questi movimenti».

Alla fine Marco riesce a mettere in ordine la scrivania. Gesti e azioni quotidiane iniziano a risultare difficili: «Vado in macchina per fare ritorno a casa – continua – e passo col rosso. Me ne accorgo poco dopo. D’istinto penso che può capitare e faccio finta di nulla. Arrivo così davanti alla porta di casa, ma non riesco a trovare la serratura, mentre le chiavi mi cadono ripetutamente dalle mani». «Tutto accadeva senza che ne avessi consapevolezza, mi ripetevo che le difficoltà che incontravo erano normali. Stanchezza. Ma non era così: erano i primi segnali dell’encefalopatia epatica».

Tempo dopo questo primo episodio al lavoro, Marco decide di sottoporsi a delle analisi. Scopre così di avere nel sangue livelli molto alti di ammonio. «Mi hanno ricoverato all’ospedale per una settimana, mi hanno fatto dei “lavaggi intestinali” con antibiotici e altri farmaci per permettere all’organismo di espellerlo». Attraverso l’uso di clisteri di “lattulosio” si mantiene l’intestino del paziente libero e si riescono a tenere sotto controllo gli effetti dell’encefalopatia epatica. Che Marco descrive come un «costante stato di ebbrezza di cui non sei cosciente che influisce sulla tua mente e sui tuoi comportamenti». «L’encefalopatia epatica ha iniziato ad influenzare la mia vita quotidiana in modo quasi sempre imprevedibile».

Andando avanti con gli anni il fegato di Marco avrebbe smesso di funzionare. «Quando mi hanno prospettato il trapianto, ho detto sì senza esitazione. Sono passati otto anni. Da allora la mia vita è cambiata», dice Marco. «L’ultima volta che ho corso avevo 23 anni oggi ne ho 65 con un fegato nuovo. E sono tornato a correre». «Corro da 65enne, ma corro».

«Nella visione collettiva esso è considerato come l’ultima spiaggia, no perché oggi quando te lo propongono è perché ci sono le condizioni. Qui a Pisa, per esempio, il centro trapianti è un’eccellenza in Italia».

Prima del trapianto, Marco ricorda di essersi sottoposto a trattamenti, gli unici disponibili in quegli anni, che permettevano di rallentare il decorso della malattia. «Interferone e ribavirina hanno rallentato la distruzione del mio fegato». «Ricordo di avere perso qualche chilo, come se fossi stato sottoposto a una chemioterapia, ma non sono mai stato costretto a dire no al lavoro. Fino a quando non fu chiaro che la cirrosi si era aggravata e non ho sviluppato i primi sintomi dell’encefalopatia epatica». Ma Marco parla anche dello stato psicologico che la scoperta di patologie come queste, oltre che del trapianto, comporta. «Quando ho saputo di avere l’HCV era in arrivo la prima figlia. Da anni mi portavo dentro il virus. Allora però non c’erano cure. Il medico mi disse che l’HCV avrebbe portato a una lenta e progressiva distruzione del fegato e che le prospettive erano due: sviluppare un carcinoma o la cirrosi epatica. Ma quando gli chiedevi in quanto tempo, i medici non erano in grado di dare una risposta. “Dipende”. «C’è stata una prima fase di accettazione della malattia e poi di rifiuto», spiega Marco. «Ecco io avevo scelto il rifiuto, complice anche la nascita del secondo figlio e il fatto che non avevo sintomi».

Dopo avere affrontato con successo il trapianto di fegato, nel 2014 Marco inizia le cure con i farmaci innovativi: «Anche il nuovo organo, presto o tardi, sarebbe stato attaccato dal virus, anche se in maniera diversa. Ero diventato anche immunodepresso, avendo subìto un trapianto. L’aspettativa di vita era di quattro, cinque anni. Così il 25 dicembre 2014 ho iniziato ad assumere questi nuovi farmaci contro l’HCV. Dopo un mese, il primo test aveva dato esito negativo. Non risultava più la carica virale».


Non solo HCV: la cirrosi tra abuso di alcol e malattie metaboliche

Quella della cirrosi epatica è una “strage silenziosa”. Come testimonia un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica internazionale The Lancet, essa è tra le principali malattie mortali al mondo. Solo nel 2017 sono decedute oltre un milione e 32 mila persone. Dal 1990 al 2017 il numero delle vittime è cresciuto, passando dall’1,9 per cento al 2,4 per cento in tutto il mondo. Colpisce soprattutto la popolazione maschile – con oltre il 66 per cento dei casi – mentre quella femminile intorno al 30 per cento. La cirrosi epatica è un problema europeo, con circa 170 mila decessi di cui circa 15 mila solo in Italia: essa almeno per ora ha una prevalenza dello 0,3 per cento della popolazione totale. Si stimano dai circa 150 ai 200 mila casi.

La cirrosi epatica «è una malattia cronica del fegato il cui tessuto si trasforma in fibroso», spiega il professore Addolorato. «I danni causati all’organo sono irreversibili».

Con la scoperta di farmaci efficaci contro l’HCV, ci sono però altre cause che stanno emergendo: l’abuso di alcol e i problemi metabolici (Nash e Nafld Non alcoholic steatohepatitis e Non alcoholic fatty liver disease). «Sono in aumento i casi di cirrosi epatica legati sia all’alcohol use disorder, pazienti che fanno un uso inadeguato di bevande alcoliche, sia alle malattie metaboliche che non sono secondarie all’alcol – spiega il professore – ma al grasso depositato nel fegato».

«La steatoepatite non alcolica – o Nash – è una patologia del fegato caratterizzata da processi di infiammazione, cicatrizzazione e morte dei tessuti. Legata a disfunzioni metaboliche e all’eccesso di grasso all’interno delle cellule del fegato, non è causata dal consumo di alcol: il grasso può accumularsi negli organi interni (grasso viscerale). Se i trigliceridi sono presenti in più del cinque per cento delle cellule del fegato si parla di steatosi epatica – è il caso del fegato grasso – in una percentuale di casi questa condizione si trasforma in steatoepatite non alcolica, che può sfociare in malattie gravi, tra le quali la cirrosi. Il 25 per cento degli italiani ha il “fegato grasso”. La percentuale aumenta con l’età, ma soprattutto tra le persone in sovrappeso e diabetiche. Mentre ne è accertata l’insorgenza nel 50 per cento dei pazienti obesi». «La diffusione dell’obesità, in particolare tra i bambini, porta a stimare che nel 2030 circa il 30 per cento della popolazione avrà il “fegato grasso”, il 6 per cento sarà affetta da Nash. Entrambe le malattie sono asintomatiche, i disturbi si presentano infatti quando il fegato è già molto compromesso. Per questo ai medici non resta che monitorare il diabete o il peso corporeo del paziente, conseguenza di un’errata alimentazione», aggiunge il professore.

«E sia la Nash sia la Nafld possono regredire se la persona è disposta a cambiare lo stile di vita. Grazie a una riduzione del peso corporeo tra il sette e il dieci per cento, i casi di Nash si risolvono nel 90 per cento dei casi. Per ora per queste patologie le strategie terapeutiche efficaci restano limitate».

Se obesità e diabete continuano ad aumentare nella popolazione, non è da meno l’abuso di alcol. I più esposti sono giovani e giovanissimi. I dati più recenti diffusi dal ministero della Salute – Alcol, Relazione al Parlamento anno 2018 – non sono affatto confortanti. La mortalità causata dall’alcol in Italia – essa è la terza causa di morte preventivabile al mondo dopo il fumo di sigaretta – solo nel 2015 è stata pari a 1240 casi, di cui 1016 uomini (81,9 per cento)e 224 donne (18,1 per cento).

I dati raccolti dall’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) – rielaborati dall’Osservatorio Nazionale Alcol dell’Iss e dall’Oms – individuano, tra le diverse patologie alcol correlate, le epatopatie alcoliche come quelle che causano il maggior numero di decessi nella popolazione nella fascia di età dai 15 anni in su. Insomma, tra cancro, cirrosi epatica e incidenti stradali alcol-correlati, oltre l’85 per cento dei decessi in Italia sono causati dall’abuso di alcol.

«Certo è che tutte le fasce di età oggi sono esposte alla cirrosi epatica dovuta all’abuso di alcol», precisa il professore Addolorato. «La più a rischio è quella giovanile: «Il consumo indiscriminato degli alcolici è un fenomeno trasversale. Molti adolescenti, tantissimi hanno meno di 18 anni, sviluppano un rapporto distorto con l’alcol: non bevono più durante i pasti. Magari dal lunedì al venerdì non lo assumono mentre nel fine settimana ne ingeriscono grandi quantità senza mangiare. È un comportamento noto come binge drinking – mutuato dai paesi del nord Europa, in particolare, dalla Germania».

Negli ultimi anni in Italia si è passati dal 33 a quasi il 60 per cento di ragazzi che emula questo stile di vita ma che, sottolinea il professore, non dovrebbero toccare proprio l’alcol perché fino ai 18 anni l’organismo non produce gli enzimi in grado di metabolizzare l’etanolo: per l’esattezza si tratta dell’alcol deidrogenasi, enzima principale che serve a metabolizzare l’alcol e che negli adolescenti è “ipo-espresso”. Ciò li espone a un rischio maggiore di sviluppare malattie epatiche. «Se nel breve periodo non insorgono patologie croniche, come la cirrosi epatica, i giovanissimi danneggiano il proprio fegato. Danni che col tempo possono aggravarsi».

«Di questo passo, tra vent’anni, avremo un tale numero di persone con “disfunzioni” del fegato che il Sistema Sanitario Nazionale non riuscirà ad accogliere tutti».


Una strada in salita senza prevenzione e un «equo accesso alle cure»: il caso dell’encefalopatia

Perciò, secondo il professore Addolorato, fare una previsione in termini numerici sulla cirrosi epatica, avendo presenti tutti questi cofattori, è oggi quasi impossibile. Non solo, perché incide anche un altro fenomeno, che non trova riscontro nella letteratura scientifica ed è desunta dalla pratica clinica. Il professore lo definisce il classico “cane che si morde la coda”: «I pazienti trattati per l’epatite C, prima che venissero scoperti farmaci antivirali efficaci erano persone che non assumevano bevande alcoliche, perché coscienti che l’alcol aumentava la replicazione virale. Essi stavano attenti anche all’alimentazione, consapevoli che un aumento della “steatosi” – il grasso nel fegato – avrebbe peggiorato il funzionamento dell’organo, già duramente colpito dall’epatite C».

«Oggi, invece, grazie alle cure antivirali, molti di questi pazienti, una volta guariti tornano ad adottare comportamenti inadeguati, cominciando a mangiare e a bere». Perciò, fondamentale è la fase del counselling: «I trattamenti per curare l’epatite C hanno un costo elevato», che grava sul Sistema Sanitario Nazionale. «I medici devono dunque avvertire sin da subito chi è in cura “guardi le risorse sono limitate, stia attento, tolta una causa eviti che ne sopraggiunga un’altra”», chiosa il professore.

Il fegato è un «laboratorio» che svolge sia funzioni di «sintesi», produce sostanze essenziali all’organismo per esempio «la vitamina K per la coagulazione del sangue» sia di «filtro». Questo organo, dunque, assieme all’emuntorio renale rimuove sostanze tossiche come i composti azotati (NH3).

È allora che se il fegato non è in grado di eliminarli si verifica un’alta concentrazione di «ammonio» nel sangue che costituisce una delle cause accertate di encefalopatia epatica (EE). Anche se, dice il professore, la medicina non ha ancora trovato su questo punto una riposta davvero univoca: «Ci sono persone, infatti, che pur in assenza di ammonimia – un’elevata presenza di ammonio circolante – sviluppano i sintomi della encefalopatia epatica». «Ma a causarla – spiega il professore – intervengono altre sostanze». «Ad esempio, le benzodiazepine like che si legano ai recettori gabaergici del cervello, deputati alla lettura di queste sostanze». «È come se una persona prendesse un carico elevato di ansiolitici o di sonniferi che saturano questi recettori».

In una ricerca condotta dal dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche del Policlinico Sant’Orsola dell’Università di Bologna l’encefalopatia epatica è definita come «una frequente complicanza della malattia cronica del fegato che si può manifestare con un ampio spettro di anomalie neurologiche e psichiatriche che vanno da alterazioni subcliniche al coma». Ma ciò che si conosce della encefalopatia epatica si basa soprattutto sulla pratica clinica. E sull’osservazione. Attualmente circa il 30-45 per cento di chi è affetto da cirrosi soffre di un’encefalopatia conclamata.

L’Associazione europea e quella americana per lo studio delle malattie del fegato nel 2014 hanno fornito delle linee guida, Hepatic encephalopaty in chronic liver disease: practice guidelines, per riconoscere i sintomi della encefalopatia epatica e misurarne l’intensità, una suddivisione basata sulla classificazione di West Haven delle anomalie dello stato mentale.

Ci sono pazienti che soffrono di malattie croniche del fegato che dopo essere stati sottoposti ad appositi test non presentano alcun sintomo di anomalie neurologiche o psichiatrice. Lo stato mentale resta “inalterato”.

È in tale ipotesi che l’encefalopatia epatica viene definita “nascosta”. Via via però si possono manifestare segni “minimi”. Il paziente inizia ad avere difficoltà psicomotorie, le sue funzioni cognitive sono alterate, si assiste a cambiamenti di umore e alterazioni neuropsicologiche non ancora accompagnate da manifesti disturbi mentali. È dal grado primo in poi (al quarto) che le linee guida attribuiscono al paziente «mancata consapevolezza di sé e degli altri, stati alternati di euforia e ansia, deficit dell’attenzione, incapacità di risolvere operazioni matematiche semplici, ritmo alterato del sonno».

«Inizia così un processo di decadimento cognitivo che possono riconoscere anche i caregiver, se opportunamente informati. L’encefalopatia epatica diventa “evidente”: il malato comincia a soffrire di letargia, apatia, disorientamento nello spazio-tempo e di un cambiamento di personalità, stati di confusione, sonnolenza fino al coma».

«Oltre all’encefalopatia epatica ci sono altre complicanze, quando la cirrosi epatica è a uno stadio avanzato. L’insorgenza di tumori e il sanguinamento, «secondario a una ipertensione portale, parliamo di shunt di vie che si aprono a carico del tratto esofageo, delle varici gastroesofagee, del fondo gastrico, delle varici gastriche e del plesso emorroidario superiore. Quando all’interno di queste strutture aumenta la pressione sanguigna il paziente muore di emorragia», racconta il professore.

In queste complicanze, che costringono i pazienti a numerosi ospedalizzazioni, si nascondono costi per il Servizio Sanitario Nazionale che, con un po’ di lungimiranza, il nostro paese potrebbe in parte abbattere. A patto però che si punti sulla prevenzione e su un «equo accesso alle cure». Per il professore del Policlinico Gemelli infatti le spese più in generale legate all’epatopatia sono molto elevate. Se si parla della encefalopatia, per esempio, i pazienti che si avviano verso un netto peggioramento non possono essere accuditi a casa e devono essere ricoverati: e per ciascuno, solo nel primo anno di cura, il costo per il Servizio Sanitario Nazionale si aggira attorno agli 11 mila euro che moltiplicato per tutti i potenziali pazienti darebbe costi elevati per il nostro attuale sistema sanitario. Per questo la prevenzione e un equo accesso alle cure rappresentano due parole chiave.

«Nella migliore delle ipotesi – spiega – quando per esempio siamo di fronte a un paziente affetto da cirrosi alcolica, se smette di bere la patologia non regredisce, ma si arresta, in base naturalmente allo stadio in cui si trova. La gravità è individuata attraverso alcuni punteggi, comunemente utilizzati nella pratica clinica: il child e il meld». «L’idea è che le cirrosi possono quindi recuperare qualche punteggio, ma non regrediscono mai». Il danno è fatto. E quando si è instaurata la cosiddetta «fibrosi», l’aspetto è quello delle cicatrici da ferite da taglio, il tessuto del fegato non è più composto da cellule, ma da «tessuto cicatriziale». «Che col tempo si aggrava, perciò l’unico modo per impedire la morte del paziente è il trapianto di fegato». I medici, spiega il professore, dovrebbero sempre accertarsi che il paziente che necessita del trapianto sia disposto a evitare qualsiasi “ricaduta”. «Va da sé perciò che la persona alla quale viene donato il fegato, magari perché affetta da cirrosi alcolica, deve essere necessariamente seguita sia nella fase pre-trapianto sia in quella post-trapianto». Nel 2018 nel nostro paese sono stati utilizzati 1370 donatori (una media di 22, 6 per milione di popolazione, stando ai dati diffusi dall’Associazione italiana per la donazione di organi (Aido); 3718 i trapianti effettuati nello stesso anno, di cui 1221 di fegato: il numero più elevato dopo quello di rene (1831). Il tempo medio di attesa per un trapianto di fegato è di uno-sei anni, con 23 centri su tutto il territorio nazionale autorizzati finora a effettuarli.

Nel 2011 l’Associazione italiana per lo studio del fegato (Aisf) ha realizzato un libro bianco, proponendo un piano nazionale per il controllo delle malattie epatiche dopo l’allarme dell’Oms, soprattutto, sulla diffusione dell’Hcv. I farmaci innovativi non erano ancora pronti. Ma già in quegli anni, come prospettato dall’Aisf, il sistema sanitario italiano avrebbe dovuto fare di più sul piano della prevenzione con screening, indagini epidemiologiche, strutture preposte, persino epatologi «adeguatamente formati in ogni struttura ospedaliera». Così il vero tallone di Achille per il nostro paese resta quello della prevenzione. Come denunciato da Cittadinanza attiva resta da sciogliere ancora il nodo dell’accesso alle cure: il criterio della «eleggibilità» infatti non aiuta. I farmaci contro l’HCV hanno prezzi da capogiro – anche fino a 40 mila euro, per esempio negli Stati Uniti 80 mila dollari per un solo ciclo di terapia –. Eppure l’Iss ricorda al Servizio Sanitario Nazionale che una scelta è possibile. Tramite uno studio condotto dalla Piattaforma italiana per lo studio della terapia delle epatiti virali (Piter) e l’alta scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari (Altems) sappiamo che «la strategia sanitaria di trattare tutti i pazienti indipendentemente dallo stadio di fibrosi del fegato è considerata sostenibile non solo in Italia ma anche in Europa». Prevenzione ed equità sono dunque strade percorribili.


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